Sono le 6 di mattina, fa freddo e ci aspetta una giornata di volontariato a Belgrado. Siamo a febbraio, cavoli se fa freddo qui, e pioviggina anche! Ma ormai avevamo deciso da tempo, io ed Ivan volevamo vivere questa esperienza. Quindi usciamo dal graziosissimo appartamento che abbiamo preso in affitto nel centro di Belgrado e ci incamminiamo a piedi verso la zona commerciale, al di là del fiume Sava. Gli altri compagni di viaggio sono rimasti a dormire, siamo in 9 in quell’appartamento.
È stato più di un anno fa. Solo oggi mi sento di raccontare quella che per me è stata una fra le esperienze di volontariato più intense che abbia vissuto, anche se solo per un giorno.
L’appuntamento è alle 7 davanti al Kombank Arena. Pessima scelta non aver preso un mezzo di trasporto, sembrava molto più vicino. Invece la camminata è stata piuttosto lunga, soprattutto a quelle temperature e con quella classica pioggerellina che ti bagna senza fartene accorgere. Non abbiamo nemmeno l’ombrello.
Arriviamo lo stesso in anticipo, del resto il passo svelto è stato l’unico modo per sconfiggere freddo e umidità. Poi siamo super carichi e l’entusiasmo è a mille.
Iniziano ad arrivare altri ragazzi, un po’ da tutta Europa e non solo. C’è anche un ragazzo mezzo iraniano e mezzo olandese, un pazzo di una simpatia unica. Dopo neanche 5 minuti insieme sembriamo già tutti amici di vecchia data che si sono ritrovati dopo tanto tempo.
Arrivano anche i responsabili della fondazione e dopo una breve ricognizione organizzativa, partiamo con due pulmini per dirigerci verso un centro di accoglienza per ragazzi provenienti da famiglie difficili.
Siamo circa una quarantina di volontari, ma il bello è che non ce ne sono più di due della stessa nazionalità. Fin da subito si crea un’atmosfera calorosa e unica. Non conta più da dove provieni, i tuoi usi, i tuoi costumi, le tue abitudini. Tutto all’improvviso si è azzerato e ciò che conta veramente è il tuo valore in qualità di essere umano.
Una sensazione bellissima. Mi sento scrollato di dosso tutti quei cliché e stereotipi che noi stessi, nel tram tram della nostra vita quotidiana, ci creiamo senza nemmeno accorgercene. Mi sento splendidamente nudo nella mia essenza.
Arriviamo al centro di accoglienza e l’atmosfera si fa ancora più intensa. I ragazzi che vivono lì hanno storie difficili, molto difficili e difficile è anche ottenere la loro fiducia. Sono diffidenti ed è normale.
Ma il compito nostro non è quello di chiedere la loro fiducia, non possiamo avere questa pretesa. Il nostro compito è fare qualcosa per loro a priori. Loro non si aspettano nulla e non chiedono nulla, perché per buona parte della loro vita sono stati abituati così.
Non siamo pedagoghi, ma siamo persone umane che possono offrire cose semplici, cose che tutti noi, quando eravamo bimbi o adolescenti abbiamo ricevuto e riceviamo dalle nostre famiglie, senza chiederle.
Quindi dopo una suddivisione in vari gruppi, ciascuno con dei compiti precisi, iniziamo le varie attività assegnate: dalla pulizia degli ambienti al giardinaggio, dagli addobbi alle specialità culinarie. Niente di particolare, cose comuni e spesso anche quotidiane, ma proprio quelle che giorno dopo giorno, contribuiscono a costruire fiducia e amore in una famiglia.
È così è stato. Non abbiamo dovuto inventarci nulla di straordinario. È bastata una sola mattinata per ritrovarci nel primo pomeriggio insieme a questi ragazzi a giocare a basket appassionatamente. Chiacchieravamo, scherzavano, si sentivano come in una famiglia. Senza distinzione di colore e di cultura, l’amore è una lingua universale.
Il momento più difficile è stato quando siamo andati via, ma anche la più grande soddisfazione. Vedere alcuni di loro, specie le ragazze, salutare sorridendo con qualche lacrima agli occhi, mi ha ricordato che solo pochi e semplici gesti ripetuti quotidianamente rendono la nostra vita viva e piena di sorrisi.
Una fra le più belle giornate della mia vita che custodirò gelosamente nel mio cuore. Vi lascio con una sintesi video di alcuni di quei momenti.
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